Man mano che i bollettini della Protezione Civile e dei sanitari vengono rilasciati appare sempre più chiara e concreta la tragedia che si sta abbattendo sul nostro Paese.
Sarà un disastro economico che segnerà le vite di tutti noi e ci lascerà una profonda ferita psicologica che solo con il tempo sarà possibile superare in parte.
Stiamo scoprendo che siamo fragili e le sicurezze che avevamo acquisito in questi 75 anni di pace e di ragionevole benessere economico si stanno sbriciolando sotto i colpi sferrati da un virus sconosciuto che sta falcidiando le nostre certezze su cui abbiamo basato le scelte della nostra vita.
Stanno tornando tempi difficili come quelli che ci raccontavano le nostre madri anziane e i nostri nonni.
E saranno difficili perché dobbiamo cambiare in fretta abitudini, modi di rapportarci, di scambiarci segnali affettuosi. Senza contare la scure economica che sta colpendo tutte le attività produttive.
Non è una guerra, almeno come quelli della mia generazione (1957) la sentivano raccontare ma i risultati sono simili.
Non stiamo vedendo le macerie degli edifici ma il risultato dal punto di vista del panico che ha colpito la popolazione e della incapacità di trovare soluzioni è, probabilmente, anche peggio.
Senza certezze economiche non è possibile aspettarsi prosperità e sognare un futuro che ci mette in condizioni di migliorare il nostro status di partenza.
Oggi mi sono tornati a mente i racconti di mia nonna paterna, Maria Pinna, sul periodo dei primi del novecento sino alla fine della seconda guerra mondiale. E di tutte le storie di sofferenze e di fame in cui versava la popolazione una in particolare mi aveva colpito per la sua profonda forza.
Vicino a casa abitava una famiglia numerosa, poverissima, senza capacità di crearsi una fonte di sostentamento perché non possedevano neanche un appezzamento di terreno dove coltivare il grano o altri cereali indispensabili per il pasto degli animali. Mancava tutto, compreso il pane.
La famiglia di mia nonna stava meglio e in “su susu” conservavano olio, grano e sino a dicembre “s'axina appicada” nelle canne tenute da fil di ferro ancorato al soffitto in legno.
Non mancavano neanche le uova fresche perché avevamo le galline che erano sempre numerose e ben nutrite.
Mio padre Natalino era molto amico di Francesco Cubedda. E questa amicizia profonda non prevedeva uno stop all'ora di pranzo. Sempre per chi si poteva permettere il pranzo.
Allora mia nonna intenerita dallo stato in cui versavano la famiglia dei vicini saliva a “susu” prendeva mezzo sacco di grano e diceva a Francesco di correre a casa sua per macinarlo e preparare il pane.
Oggi questa storia di solidarietà in tempi che si prospettano davvero difficili è riemersa nei miei ricordi d'infanzia quando Francesco Cubedda veniva a trovare mia nonna ogni volta che tornava dalla Francia dov'era emigrato. E ogni volta ricordava com'erano poveri e anche grazie a quel dono avevano più volte potuto mangiare un tozzo di pane.
La morale che ne traggo da questi ricordi mi riporta con forza ai periodi difficili in cui hanno vissuto i nostri nonni e genitori e nonostante tutto non si sono abbattuti e hanno mantenuto alimentato il sentimento della solidarietà che ha rafforzato i legami personali e della comunità per molti decenni anche dopo che è finita la guerra.
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